Cry babies

Ancora ispirazione da un (estratto da un) articolo della School of Life. È confortante sapere che non sono anormale per il fatto di piangere così tanto, e concordo pienamente con l’ultima parte – una tempesta è spesso il preludio a cieli sereni.

“Fin dai primi anni della nostra vita, siamo sottoposti a grandi pressioni affinché smettiamo di essere la creatura più terrificante e regressiva che possa esistere, un piagnone. Sono i neonati a piangere, non i genitori o i dirigenti senior. Sono i bambini che urlano, non persone di quarantotto anni con una macchina e un passaporto. (…)

Non è sorprendente che dentro di noi le cose siano raramente così facili. Registriamo tutto. Notiamo il sorriso trattenuto di un collega che segretamente disprezziamo, il silenzio tutta la mattina quando speravamo in un messaggio, il piccolo scherzo crudele a nostre spese fatto da un membro della famiglia, l’invito che non abbiamo ricevuto (…). Al momento, lo liquidiamo con una risata, ci piace andare avanti velocemente, non ammettiamo nemmeno il disagio a noi stessi, ma tutto è stato notato e tutto fermenta dentro di noi. Si deposita in un profondo serbatoio che si riempie lentamente ed è collegato da un complicato sistema idraulico che alla fine ci impone un peso dello spirito, un sorriso forzato, una propensione alla rabbia, amarezza e invidia. Dimentichiamo troppo in fretta i dettagli esatti di ciò che ha ferito il nostro spirito e poi non riusciamo ad estrarre le schegge dalle nostre psiche. (…)

Una delle cose più sagge dei bambini molto piccoli è che non hanno vergogna o remore a scoppiare in lacrime, perché – rispetto agli adulti – hanno un senso del proprio posto nel mondo più accurato e meno pieno di orgoglio: sanno di essere esseri estremamente piccoli in un ambiente ostile e imprevedibile, che non possono controllare gran parte di ciò che sta accadendo intorno a loro, che le loro capacità di comprensione sono limitate e che c’è molto da sentirsi angosciati, malinconici e confusi. Perché non concedersi, su base abbastanza regolare e anche solo per brevi istanti, di lasciarsi andare in un pianto altamente salutare di fronte all’enorme vastità della tristezza di esistere?

È deplorevole che tale saggezza si perda con l’età. Iniziamo ad associare la maturità a un’idea di invulnerabilità e competenza. Ma questo è il massimo del pericolo e della baldanza. Rendersi conto di non poter più farcela è parte integrante della vera resistenza. Siamo nella nostra essenza e dovremmo sempre cercare di rimanere dei piagnoni, cioè persone che si ricordano intimamente del dolore e della propria suscettibilità al dolore e al lutto. I momenti di perdita di coraggio appartengono a una vita coraggiosa. Se non ci concediamo frequenti occasioni di piegarci, rischiamo di spezzarci fatalmente un giorno.

Quando ci colpisce l’impulso di piangere, dovremmo essere abbastanza adulti da cedervi come sapevamo fare nella saggezza dei nostri quattro o cinque anni. Potremmo trovare rifugio in una stanza tranquilla, coprirci con il piumone e concederci di lasciar fluire liberamente torrenti incontenibili di lacrime di fronte all’atroce realtà di tutto ciò. Nessun pensiero dovrebbe essere troppo buio: siamo ovviamente inutili. Tutti sono evidentemente estremamente meschini. È naturalmente troppo. La nostra vita è – indubbiamente – priva di significato e rovinata. Se la sessione deve funzionare, dobbiamo toccare il fondo; dobbiamo cedere completamente al nostro senso di catastrofe.

Poi, se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, in un qualche momento di questa disperazione comincerà a farsi strada nella nostra mente qualche idea – per quanto minima – che tenta di riportarci dall’altra parte: ricorderemo che sarebbe piuttosto piacevole e possibile fare un bagno molto caldo, che qualcuno una volta ci ha accarezzato gentilmente i capelli, che abbiamo un buon amico e mezzo sul pianeta e un libro interessante ancora da leggere – e sapremo che il peggio della tempesta è passato. “

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Yet another inspiring (excerpt from an article) by the School of Life. It’s reassuring to know that I’m not abnormal for crying so much, and I wholeheartedly agree with the last part – a storm is often the prelude to clear skies

“From early on in our lives, we are put under a great deal of pressure not to be that most terrifying and regressive of creatures, a cry baby. It’s infants who cry, not parents or senior managers. It’s children who wail, not forty-eight year olds with a car and a passport. (…)

Inside, no wonder if matters are seldom so easy. We register everything. We notice the withheld smile of a colleague we quietly despise, the silence all morning when we’d hoped for a message, the little cruel joke at our expense a family member made, the invitation we didn’t receive (…) At the time, we laugh it off, we like to move on fast, we don’t even admit the distress to ourselves, but it’s all been noticed and it all festers within us. It settles in a deep reservoir which is slowly filling up and is connected by a complicated hydraulic system that eventually enforces on us a heaviness of spirit, a dry smile, a proclivity to rage and a bitterness and envy. We too quickly forget the exact details of what wounded our spirits and then can’t extract the splinters from our psyches. (…)

One of the wisest things about very young children is that they have no shame or compunction about bursting into tears, because – compared with adults – they have a more accurate and less pride-filled sense of their place in the world: they know they are extremely small beings in a hostile and unpredictable realm, that they can’t control much of what is happening around them, that their powers of understanding are limited and that there is a great deal to feel distressed, melancholy and confused about. Why not then, on a fairly regular basis, sometimes for only a few moments at a time, collapse into some highly salutary sobs at the sheer scale of the sorrow of being alive?

It’s regrettable that such wisdom gets lost as we age. We start to associate maturity with a suggestion of invulnerability and competence. But this is the height of danger and bravado. Realising we can no longer cope is an integral part of true endurance. We are in our essence and should always strive to remain cry-babies, that is, people who intimately remember their susceptibility to hurt and grief. Moments of losing courage belong to a brave life. If we do not allow ourselves frequent occasions to bend, we will be at great risk of one day fatefully snapping. 

When the impulse to cry strikes us, we should be grown-up enough to consider ceding to it as we knew how to in the sagacity of our fourth or fifth years. We might repair to a quiet room, put the duvet over our heads and give way to unrestrained torrents at the horribleness of it all. No thought should be too dark any more: we are obviously no good. Everyone is evidently extremely mean. It’s naturally far too much. Our life is – undoubtedly – meaningless and ruined. If the session is to work, we need to touch the very bottom and make ourselves at home there; we need to give our sense of catastrophe its fullest claims. 

Then, if we have properly done our work, at a point in the misery, some idea – however – minor will at last enter our minds and make a tentative case for the other side: we’ll remember that it would be quite pleasant and possible to have a very hot bath, that someone once stroked our hair kindly, that we have one and half good friends on the planet and an interesting book still to read – and we’ll know that the worst of the storm is over. “